Delitto Lanzino, il processo rischia di ripartire da zero

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COSENZA – Una verità “nascosta” dai rinvii. Il caso Lanzino rischia di rimanere tale. Sì perchè, il processo per far luce sulla tragica, violenta e barbara

uccisione di Roberta Lanzino, la giovane studentessa, brutalmente assassinata tra le strade tortuose della vecchia strada di Falconara Albanese, rischia di saltare, mandando in frantumi, la speranza dei familiari della studentessa di avere giustizia e di poter dare una certezza di responsabilità penale ai killer di Roberta. Gli assassini della studentessa rendese, brutalizzata nel 1988, sono Franco e Alfredo Sansone, rispettivamente figlio e padre, due pastori di Falconara Albanese. A loro forze dell’ordine e magistratura sono arrivati, non solo attraverso minuziose indagini, effettuate con tecniche scientifiche di ultima generazione, non esistenti al tempo dell’omicidio, ma anche grazie alle “cantate” di pentiti della mala di Cosenza, come Franco Pino e Umile Arturi che, con le loro dichiarazioni hanno inchiodato i due, sgombrando il campo da ipotesi fantasiose, continui depistaggi e innumerevoli tentativi anonimi di trascinare nel fango delle responsabilità figliocci della Cosenza bene. Oggi, infatti, è in programma presso la Corte d’Assise di Cosenza, la ripresa del processo, dopo il lungo stop per la pausa estiva. Ma, ancora una volta, l’udienza, l’ennesima, potrebbe concludersi con un nulla di fatto, già prima di iniziare. Questa volta l’intoppo, non di poco conto, riguarda il presidente della Corte, Antonia Gallo, in procinto di essere trasferita alla presidenza di una delle Corti d’Appello di Napoli. Il giudice, campano, una delle figure più autorevoli e determinate nel panorama giustizia del tribunale di Cosenza, infatti, aveva avanzato richiesta di trasferimento. Richiesta accolta dalla commissione speciale del Consiglio superiore della magistratura che, però, per essere ratificata, deve ottenere il via libera dal plenum del Csm. Oggi il processo, in programma per stamattina, riparte, senza il giudice Gallo, al suo posto, la Corte d’Assise sarà presieduta dal presidente della sezione penale del Tribunale Giovanni Garofalo. Ma il magistrato “supplente”, non potrà fare molto, se non indicare i tempi di fissazione di una nuova udienza. La giornata di stamattina, come da indicazioni del calendario, avrebbe visto salire sul banco dei testimoni i fratelli Frangella, finiti nella lente d’ingrandimento dei sospetti per quella morte, processati, con l’accusa di aver violentato, ucciso e “violato” la giovane esistenza della studentessa rendese, ma poi usciti dalla porta principale del processo con un verdetto di assoluzione piena. Ma la posizione del presidente della Corte d’Assise Antonia Gallo, non è l’unica che rischia di “compromettere” il naturale percorso del processo. Anche il sostituto procuratore della Repubblica, Roberta Carotenuto, pm a Paola, che ha ereditato da altri colleghi tutto l’incartamento accusatorio, rischia di saltare dal processo, anche lei per ipotesi di trasferimento. Insomma, oggi sarà una giornata triste per i familiari di Roberta Lanzino, per i responsabili dell’associazione che porta il suo nome, per gli avvocati di parte civile e per chi vorrebbe che sia fatta piena luce su questa brutta pagina di cronaca, ancora lontana dall’essere commentata con la certezza della verità. Per quella morte, come detto, tragica, violenta, barbara, dopo l’esclusione dei Frangella, riabilitati davanti agli occhi dell’opinione pubblica, dall’avvocato Antonio Ciacco, i due oggi siedono al banco dei testimoni. Il processo, riaperto con sospetti fondati sulla responsabilità dei due Sansone nel fatto di sangue, ripartito dopo la comparsa di un supertestimone che ha permesso all’allora pm Domenico Fiordalisi, ex sostituto procuratore della Repubblica di Paola, di formalizzare un atto d’accusa contro gli odierni imputati, rischia di saltare e, ancora di più, rischia di ripartire anche da zero.

RICOSTRUZIONE OMICIDI E DEPISTAGGI – Un delitto occasionale. Senza indagati “eccellenti”. Maturato a causa di sfortunate e imprevedibili circostanze legate al viaggio compiuto dalla vittima verso Torremezzo di Falconara. Il supertestimone che ha consentito al pm Domenico Fiordalisi di riaprire le indagini sull’omicidio di Roberta Lanzino, avvenuto nel luglio del 1988, offrirebbe un quadro esaustivo e illuminante del terribile fatto di sangue, sgombrando definitivamente il campo da piste suggestive e mai riscontrate che contemplavano il coinvolgimento di rampolli della “Cosenza bene”. La studentessa di Rende venne avvicinata dai due assassini mentre, attraversando l’appennino paolano, percorreva la vecchia strada che conduce a Falconara. Roberta aveva perso l’orientamento e sembrava incerta. I due bruti ne avrebbero approfittato per bloccarla, abusarne sessualmente e poi ucciderla. Il supertestimone, come già nel Duemila aveva fatto l’ex boss pentito Franco Pino, ha escluso la premeditazione dell’azione criminosa confermando che, al contrario, sarebbe opera di persone perfettamente ambientate nella zona. Persone che imperversavano tra quelle montagne imponendo la loro legge col terrore. Uno dei due criminali, dopo il delitto, fece addirittura delle confidenze alle forze dell’ordine per depistare le indagini. Quando si trattò d’individuare il proprietario della Fiat 131 che in quel tragico pomeriggio venne vista da alcuni commercianti seguire il motorino guidato da Roberta, il finto “confidente” mise in atto la sua diabolica strategia. E spinse gl’investigatori verso un operaio di tutt’altra zona ch’era in effetti in possesso di una vettura dello stesso tipo. L’incolpevole muratore venne successivamente scagionato perchè aveva un alibi. Era, infatti, in grado di dimostrare d’essere stato da tutt’altra parte al momento della consumazione del crimine. Dodici anni dopo saranno i pentiti Franco Pino e Umile Arturi a scagionarlo definitivamente. E, insieme a loro, il nuovo supertestimone. La strategia dei depistaggi, peraltro, continuò nel corso del processo istruito contro tre pastori di Falconara Albanese, incolpati e poi assolti per l’omicidio della studentessa. Nella fase istruttoria dell’inchiesta aperta nei loro confronti e durante la celebrazione del successivo dibattimento in Corte d’Assise, furono spedite delle lettere a magistrati e avvocati con le quali s’indicavano come responsabili del fatto di sangue figli di noti professionisti della città bruzia. Ragazzi di cui vennero persino fornite le generalità. Non solo: qualcuno telefonò addirittura a padre Fedele Bisceglia, fingendosi uno degli assassini. L’anonimo interlocutore disse al religioso d’essere pronto a rendere piena confessione. Naturalmente non era vero. L’azione di depistaggio contribuì significativamente a creare sconcerto nell’opinione pubblica ed a seminare dubbi anche tra gl’investigatori. Tutte le cabine telefoniche pubbliche vennero poste sotto controllo, mentre le missive anonime furono passate al setaccio dalla polizia scientifica. Alla fine le indagini non approdarono a nulla. L’unica a conoscere da sempre i retroscena del feroce crimine era una casalinga di Falconara. Si chiamava Rosaria Genovese e venne strangolata e gettata in un pozzo, in località “Cavone” di San Lucido, nell’aprile del 1990. Prima di essere ammazzata, tuttavia, la donna aveva confidato a un’amica i terribili segreti di cui era a conoscenza. Segreti che le erano stati rivelati direttamente da uno dei due bruti. La teste, beneficiaria delle confidenze costate probabilmente la vita alla Genovese, è stata convinta a parlare, dopo quasi vent’anni, dal pm Fiordalisi. Lo stesso Pubblico Ministero era già in possesso delle dichiarazioni, perfettamente sovrapponibili, rese nel Duemila dal pentito Franco Pino. L’ex boss aveva appreso la reale identità degli assassini di Roberta Lanzino, da un padrino di San Lucido, nel 1995, mentre si trovava ristretto nel supercarcere di Palmi.

IL RACCONTO DEGLI EX BOSS – «Roberta Lanzino è stata violentata e uccisa da Luigi Carbone e Franco Sansone a Falconara Albanese. Si era fermata o perché le si era rotto il motorino o per chiedere un’informazione». Franco Pino, un tempo incontrastato boss del Cosentino e ora collaboratore di giustizia, conferma i retroscena di quel barbaro delitto. Con tono pacato ma deciso, per oltre quattro ore, risponde a tutte le domande del collegio giudicante nel corso del processo che si sta celebrando in Corte d’Assise, nel tribunale di Cosenza, per la morte della studentessa uccisa il 26 luglio del 1988 mentre si stava recando al mare. Sono state proprio le sue dichiarazioni a far riaprire il processo e, questa mattina, Pino ha ribadito di aver appreso da Marcello e Romeo Calvano l’identità degli autori dell’assassinio di Roberta. Non ha dubbi su quello che ha riferito. I Calvano erano – per dirla con le sue parole – «quelli che avevano competenza su San Lucido». Franco Pino ricostruisce alcune vicende di quegli anni come la tentata estorsione a Grimoli, il legame con Ruà, che definisce uno dei suoi anche se non affiliato, fino a precisare i rapporti con Luigi Carbone, agricoltore di Cerisano scomparso nel novembre del 1989, ma del quale non è stato mai ritrovato il corpo. Carbone assieme a Franco Sansone è accusato di aver ammazzato Roberta. Mentre Franco Sansone, il fratello Remo e il padre Alfredo sono ritenuti gli assassini di Luigi Carbone che – secondo l’accusa – sarebbe stato eliminato proprio da Franco con la complicità del fratello e del padre perché temeva che volesse rivelare qualcosa sul delitto Lanzino. Il collaboratore di giustizia ha spiegato come era venuto in contatto con Luigi Carbone: «Ho ospitato nella mia cella Luigi Carbone (che era stato arrestato per una rapina, ndr) perché ho visto che era un ragazzo abbastanza risoluto ma non l’ho affiliato. Carbone, pace all’anima sua – perché secondo me è morto – era un lupo isolato, ma saputo gestire non sbagliava. Anche Ruà non è stato mai affiliato. Ma vedete bene, l’affiliazione era una forma per creare dei soldati, però quando c’erano persone valide l’affiliazione passava in secondo piano. Ruà ha trattato con mezza Calabria per conto mio ma non era affiliato. Carbone è stato vicino a me nel periodo carcerario, ma per me fuori non ha fatto nulla. I lupi sono feroci quando sono in branco, lui era lupo feroce anche da solo». E poi nel controesame ha aggiunto: “Carbone era legato ai Sansone”. Poi dopo il delitto Lanzino, e precisamente nel 1989, Carbone sparì nel nulla. «Ruà – ha raccontato Pino – è andato a vedere cosa stesse succedendo e i familiari di Luigi, a mezze parole, hanno detto che erano stati quelli della montagna, i Sansone: una persona anziana e due figli. Io non conosco i Sansone direttamente tranne una volta che siamo andati in una stalla a Falconara a prendere delle armi». Ma è stato Romeo Calvano, nel carcere di Siano nel 1995, a parlare a Franco Pino del delitto Lanzino: «Quando ci siamo trovati con Calvano al 41 bis, a Siano, lui mi spiegò che Carbone non meritava di essere vendicato perché aveva partecipato ad alcuni omicidi e anche a quello del cugino di Calvano». L’ex boss della ’ndrangheta cosentina, in realtà, ha appreso l’identità dei responsabili dell’omicidio di Roberta, in due circostanze, che il giudice Antonia Gallo ha chiesto di precisare: «L’ho saputo da Marcello e Romeo Calvano, la prima volta nel 1994 e poi in carcere a Siano nel 1995. Mi trovavo al 41 bis con Romeo Calvano, Antonio Sena e Nino Imerti di Reggio Calabria, eravamo in quattro celle e nell’ora d’aria passeggiavamo: ci alternavamo un giorno io e Sena, un altro io e Romeo. Romeo Calvano mi disse che Luigi Carbone era stato ammazzato da Franco Sansone e che ha partecipato all’omicidio Lanzino e a quello del maresciallo Sansone». Poi incalzato dal pm Carotenuto ha aggiunto: «Carbone e Sansone hanno violentato e ucciso Roberta Lanzino, nella zona di Falconara, non ricordo con precisione ma disse anche che Roberta era caduta con il motorino e ha incontrato Luigi e Franco. Mi pare che o era caduta o era scesa per chiedere un’informazione». E rispondendo alla domanda del presidente Gallo su come si era arrivati a parlare del delitto Lanzino, Pino ha detto: «Con Romeo Calvano parlavamo di altre cose quando si arrivò a parlare della scomparsa di Carbone e in questo contesto Romeo Calvano mi disse che Carbone era un indegno perché aveva commesso un’azione indegna e anche perché aveva partecipato all’omicidio del cugino. Non c’era un dubbio che lui potesse riferire una fesseria». Poi ha anche spiegato come i due presunti assassini sarebbero entrati in contatto con Roberta: «Per quello che ricordo la seguivano. C’è un altro episodio che non so se può interessare: due o tre giorni dopo il delitto una sera ero sul lungomare di San Lucido (estate 1988) in pantaloncini corti e trovai un cugino di Belmonte, nostro associato; io sapevo che era stato fermato per l’omicidio e gli ho detto “ma cosa hai fatto”? E lui rispose: “Non ho fatto nulla, mi hanno fermato perché ho una Fiat 131 come quella di Franco Sansone”. Io e Ruà quella sera eravamo a San Lucido». E quando il giudice Gallo fa notare che dalla morte di Roberta al 1994 passarono sei anni, Pino ha aggiunto: «Ne avevo parlato con Marcello Calvano nell’estate del 1994 (Marcello è stato ammazzato nell’agosto del 1999). A una settimana dall’inizio della mia collaborazione si fece un verbale di intenti e io grosso modo ne parlai. Ma l’interrogatorio ufficiale si svolse il 7 dicembre del 1999, dopo cinque anni che collaboravo con la giustizia. Altre volte ne ho parlato però non ricordo. A volte ne ho parlato persino in macchina quando gli uomini della scorta mi accompagnavano. Sono state centinaia le persone venute da me per sapere chi avesse ucciso Roberta». Nel corso del controesame il pentito ha precisato i rapporti con Umile Arturi, amico di Pino e come lui ora collaboratore di giustizia. Anche Arturi doveva essere ascoltato oggi in Corte d’Assise. Incalzato da avvocati della difesa e della parte civile Franco Pino, quasi al termine della sua deposizione, ha detto chiaramente: «Tutto confermo, signor presidente».

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