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Il viaggio nella città dei senza nome

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Il viaggio nella città dei senza nome

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COSENZA – Ogni tanto ne muore uno, sì. Ma quando ne muoiono tre, in quel modo poi, la notizia si trasforma da trafiletto di cronaca

a titolo da home page dei grandi quotidiani nazionali. Credo che il modo migliore per raccontare questa tragedia, sia leggere l’articolo scritto dal collega Eugenio Furia, prestigiosa penna di Corriere della Calabria. I clochard a Cosenza fanno parte del paesaggio. E raccontano l’integrazione fallita nel posto che si fregia di essere «città dell’accoglienza», un capoluogo che – in attesa della Città del Sole dei migranti – ha sviluppato una cittadella nomade lungo il fiume. È una favelas che fa notizia solo in caso di incendi o esondazioni. Ma non c’è bisogno di arrischiarsi lungo il Crati – benché esistano associazioni di volontariato che lo fanno da anni – o di farsi un giro nel centro storico per notare che i “non luoghi” a Cosenza stanno in centro, dove la dissonanza con il contesto è ancora più netta. Il rudere del rogo di via XXIV Maggio, per dire, è perfettamente incastrato fra viale Mancini e i suoi residence in stile Miami e il salotto buono della città, quell’isola pedonale dove ai piedi di una statua di Manzù o De Chirico puoi vedere l’omino coi baffetti che in ginocchio continua a cantare e ridere alla vita o i ventenni con chitarra e armonica che ogni tanto rendono l’ex corso Mazzini una Grafton street dublinese dei poveri, lo «storpio» con il cappello teso e i bimbi mandati in avanscoperta a muovere compassione chiedendo l’elemosina. Spesso nell’indifferenza della gente. In una manciata di metri si trovano le due città un tempo divise dal rilevato ferroviario abbattuto nel 2004 a favore della spianata che oggi è l’arteria eponima del traffico cosentino. «Viale Giacomo Mancini» oggi salda periferia e centro rendendo il secondo simile alla prima, e non il contrario. È proprio nelle due fasce “intermedie” (via XXIV Maggio-viale Mancini e viale Mancini-via Popilia) che si sviluppa l’altra città, quella degli ultimi. Materassi sfondati per giaciglio, cartoni per coperte, Tavernello e birra per compagni. Se va bene un fuoco con cui scaldarsi. Vicino a piazza Fera, dove per ora un parcheggio da archistar è solo un ologramma con strascichi giudiziari e polemiche politiche, un casolare abbandonato coevo di quello che ha ospitato i poveri «barboni» carbonizzati è stato da poco transennato alla bell’e meglio. Vi trovò la morte per overdose un altro «marginale», come da definizione socio-antropologica. Un altro, simile, è poco più a sud, sua via Miceli, a poche decine di metri dalla questura: qualche anno fa una retata vi stanò degli innocui occupanti in clima da autogestione. E andando verso nord, via Panebianco è il trionfo delle case sventrate elette a dimora come l’istituto di igiene e profilassi della vicina Città 2000, altro nome evocativo che davanti al degrado imperante fa sorridere. Sono scenari da metropoli calati in un «paesone» come è Cosenza: a pochissimi metri dal luogo della tragedia di stamattina, in pochi mesi è stato incastrato – nell’ultimo fazzoletto libero disponibile – un cubo di cemento che, una volta finito, non si sa da quanti sarà abitato. I prezzi saranno comunque esorbitanti. Accanto, uno dei rifugi preferiti dai clochard: è una cabina elettrica, un parallelepipedo il cui retro, senza tetto, magari sarà stato frequentato anche dalle tre vittime di oggi prima che i rigori dell’inverno si inasprissero. È un’immagine simbolo del boom di un’edilizia drogata per cui le nuove linee dell’urbanistica abitativa delimitano appartamenti costosissimi e vuoti, mentre là fuori i poveri (nuovi e no) aspettano magari l’alloggio dell’Aterp. Altro bubbone che viene lenito solo dal balsamo delle promesse di ogni campagna elettorale. «Me lo ricordo, quello mutilato». Il tam-tam dei cosentini delinea i ritratti dei senza-nome, quelli che ci davano anche fastidio nella vasca sull’isola pedonale o nella corsetta su viale Parco, una colonia di derelitti su una sola panchina, i pomeriggi e le notti anzi le giornate intere passate a bere ma mai nessun problema, giusto qualche volta uno di loro che si ritrovata pestato e gonfio di botte, qualcuno portato in ospedale. «Sono quelli che stavano davanti al Due fiumi?». Sul web, da quando la notizia tragica ha preso piede e assunto contorni più definiti, più d’uno ricorda l’attività, oggi ridimensionata, dell’Oasi francescana e le promesse dei sindaci su futuribili villaggi dell’accoglienza. Anche chi evoca il periodo aureo del sindaco Mancini forse dimentica che la tendenza a ghettizzare è la stessa che oltre 10 anni fa produsse il villaggio di via degli Stadi. «Il trasloco più bello dell’anno», dicevano i manifesti del Comune in quel dicembre 2001, è come «ground zero» commentava qualcuno. Cosa resta? Un altro non luogo a cui abbiamo fatto subito l’abitudine, e un’altra spianata – via Sant’Antonio dell’Orto e via Reggio Calabria – che vive sospesa aspettando il Ponte di Calatrava e il Planetario, due totem. Raccontano anche loro le due città, proprio come il macchinone che sfreccia davanti a chi scava nel cassonetto; come i loft di corso Telesio confinanti con le topaie dove un anziano può morire carbonizzato dalla vecchia stufa e un trentenne se ne va per un’overdose; come i mercatini frequentati dai nuovi poveri in orario di chiusura alla ricerca di scarti dopo un giro al discount a caccia del polmone – «ché la carne costa troppo». È l’altra città rispetto – conclude nel suo pezzo Eugenio Furia – a quella che stasera s’ingioiellerà per la prima della lirica al “Rendano”, che sempre più – e massimamente oggi – appare come una nobile decaduta, a tiro nel palazzo sgarrupato. Il Titanic che affonda e l’orchestrina che suona.

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