La società, leader nel settore dei call center finisce nel mirino della Procura di Lamezia per una presunta maxi evasione fiscale.Le Fiamme Gialle sequestrano beni per oltre 26 milioni.
COSENZA – Prima la “colonizzazione” del territorio, accolta come una manna. Poi il crack, con la conseguente delusione per molti che avevano scommesso sulle attività dei “colonizzatori”, che operavano in Calabria ma avevano la sede altrove, al riparo degli “indigeni”. Infine l’inchiesta perché, avranno ipotizzato gli inquirenti, fallire è meno facile per chi ha ricevuto fior di agevolazioni e provvidenze.
Può essere la storia di molte imprese, con le gambe e il cuore in Calabria ma col cervello e lo stomaco altrove. Una storia che si è ripetuta per l’ennesima volta nel caso di Infocontact, finita nel mirino di Giuseppe Maffia, il procuratore capo facente funzioni della Procura della repubblica di Lamezia, che ha ordinato un maxisequestro di beni per 26 milioni di euro. Tanto la società, indagata per evasione, dovrebbe al Fisco dal 2009 al 2016.
Le Fiamme Gialle, dopo un’inchiesta complicata, condotta nelle maniere “tradizionali” – riscontri incrociati sui conti correnti e visure camerali – e tecnologiche – intercettazioni, telefoniche e informatiche – ha operato oggi il sequestro dei beni intestati alla società che, dal 27 luglio 2014, è in amministrazione straordinaria dopo che ne è stata dichiarata l’insolvenza.
Cuore e gambe in Calabria, si diceva. Infatti, Infocontact, grazie alle provvidenze e agli sgravi pubblici, era arrivata ad aprire 14 call center nelle province di Cosenza, Catanzaro e Vibo Valentia, per un totale di 2mila dipendenti. Cervello altrove: la sede legale della società era a Roma sin dalla costituzione, avvenuta nel 2001 ed è rimasta lì anche dopo lo sbarco in Calabria, avvenuto nel 2006.
Altrove anche lo stomaco, dato che i beni sequestrati, conti correnti, immobili e mobili e partecipazioni societarie, erano tutti tra il Lazio e la Campania. Prendi i soldi e scappa? Forse, secondo gli inquirenti, sarebbe andata proprio così. Altrimenti un mini impero come quello messo su da Infocontact non si sarebbe sgretolato in otto anni.
Il sospetto degli investigatori è che, attraverso un giro di società collegate, alcune con sede all’estero, gli amministratori di Infocontact abbiano “involato” capitali e beni sin da quando la società principale era entrata in crisi. Se queste ipotesi venissero confermate, ci troveremmo ad avere a che fare per l’ennesima volta con il consueto gioco di scatole cinesi, visto sin troppe volte nelle vicende dell’imprenditoria calabrese, autoctona e “coloniale”.
Anche lo schema base di Infocontact era piuttosto complesso: il capitale sociale, per dirne una, era posseduto da altre società, riconducibili alle famiglie Pane (noti armatori marittimi di Sorrento) e Graziani (che, invece, avevano fatto fortuna nella telefonia: non a caso il loro capostipite era stato dirigente Telecom). All’assetto proprietario, “schermato” da varie società, corrispondeva quello amministrativo. Infatti, Infocontact è stata gestita da Giuseppe Pane, Mariano Pane e Alfonso Graziani, che è morto nel 2014, poco prima che, al termine di un lungo braccio di ferro con i sindacati.
Debiti da lavoro e tasse non versate. Possibile che, per l’ennesima volta, tocchi alla magistratura raccontare al mondo la storia dell’imprenditoria in Calabria?
m. m.