Carnevale: è cosentina la maschera seicentesca di Pantuocchio “colui che vede tutto”
La nuova scoperta targata Mistery Hunters; anche Cosenza ha la sua maschera: Pantuocchio "colui che vede tutto", che scruta le dinamiche sociali e i comportamenti umani per poi commentarli in modo beffardo, una figura onniveggente e onnipresente, testimone silenzioso della vita cittadina
COSENZA – Grazie allo straordinario lavoro dell’Associazione Culturale Mistery Hunters, arriva nuova scoperta legata al Carnevale: è Cosentina la maschera seicentesca di Pantuocchio.
Nel 1697 il sacerdote castrovillarese don Orazio Pugliese, dopo essersi trasferito a Napoli, pubblicò “Lo sfratto e testamento di Carnevale” seguendo la tradizione teatrale calabrese della farsa carnascialesca. La “Farsa” è un opera teatrale, solitamente interpretata da soli uomini, la cui trama si basa su situazioni e personaggi stravaganti che, seppur mantenendo un certo realismo, estremizza i loro caratteri buffi e irrazionali. L’origine di questo genere teatrale pare risalga ai tempi degli antichi Greci e Romani.
La novità è che in questa commedia il vero protagonista non è padron Carnevale, ma il servo Pantuocchio, che è calabrese purosangue senza vergogne e senza timori, anzi se ne fa vanto (“E cumu su’ calavrise, e me ne glueriu!”) e “si scontra con questo e truffa quest’altro”, accompagnato nelle sue vicende dal mezzemaniche pedante Girannola, dal leguleio saccente Arleo, dal retorico nonché venale Silvero e dalla serva Cecca che ama e da cui è amato (per scoprire infine che è sua sorella sic!). Sulla scena si parla calabrese, napoletano, latino, italiano, si spagnoleggia e si macaroneggia.
Il nome Pantuocchio è tanto curioso quanto evocativo. A prima vista, suscita un sorriso per la sua musicalità e per quel suono che sembra quasi imitare un passo goffo o un’espressione popolare. Ma dietro questa semplicità apparente si cela un significato più profondo, legato alla cultura, alla lingua e alla storia di Cosenza. Dietro quel nome che sembra evocare un personaggio impacciato si nasconde, in realtà, una figura sagace. Questa ambiguità è il cuore stesso della maschera: apparire semplice per poter dire cose profonde.
Il termine Pantuocchio sembra derivare da una combinazione di due parole, “Pantu” e “Occhio”. Considerando l’influenza storica e culturale della Magna Grecia in Calabria (lui stesso dice “So de la Magna Ngrecia”), “Pantu-” potrebbe derivare dal greco “pantos”, che significa “tutto” o “ogni cosa”. “-Occhio” richiama invece lo sguardo, l’atto del vedere e, soprattutto, dell’osservare con attenzione. L’occhio nella tradizione popolare è simbolo di conoscenza, intuizione e controllo. Pantuocchio, dunque, è “colui che vede tutto”, che scruta le dinamiche sociali e i comportamenti umani per poi commentarli in modo beffardo, una figura onniveggente e onnipresente, testimone silenzioso della vita cittadina. Pantuocchio non è semplicemente uno spettatore passivo: è un interprete del mondo che lo circonda, capace di cogliere le incongruenze e le assurdità della società per poi restituirle al pubblico sotto forma di satira leggera ma penetrante. Questo lo trasformerebbe da semplice maschera comica a simbolo di consapevolezza collettiva e saggezza popolare. Il nome diventa così un invito a non fermarsi alla superficie, a “guardare” (proprio come fa Pantuocchio) oltre ciò che si mostra. In questo senso la maschera diventa anche metafora della Calabria, le cui pietre antiche e i suoi scorci pittoreschi custodiscono e nascondono storie di resilienza, ironia e spirito critico.
L’opera del Pugliese ha il merito di ribaltare finalmente il senso dello star in scena del calabrese, fino ad allora sempre chiamato ai disonori della ribalta indossando solo “robbe arrangiaticce e pitoccose”, stracci ridicoli e “schifosamente sgargianti” e facendo da sponda bruta con la sua mediocrità e la sua grettezza al bon ton di altri personaggi. Infatti fino ad allora il “calabrese” si porta cucita addosso “la lettera scarlatta della pochezza”, secondo i casi grave, rozzo, eternamente allupato, gretto, sparagnino, vantone, infido, terra-terra, proveniente da una regione povera rispetto allo sforzo di una città come Napoli in quell’epoca emblema dì sfarzo, lusso e raffinatezza. Pantuocchio, nella farsa del Pugliese è il vero protagonista assoluto, si piglia addirittura il lusso di frustare le boria di chi gli spaparanza in faccia una presunta superiorità (“È lu veru ca nue iamu alla bona, ma vua napuletane, lu iuornu strusce e strasce, cu’ bestire de sita, e pua la sira non havite pane p’assettà lu vestitu”). Si prende la sua rivincita, portando per mano l’antagonista dove vuole la sua convenienza o quella del padron Carnevale, mettendo in mezzo chi fino ad allora aveva tenuto e messo in mezzo lui che, come dice il saggista calabrese Giulio Palange, il primo studioso a recensire questa maschera calabrese, “non è impastato nell’argilla ravvivata dal fiato di Domeniddio, ma nello sterco dell’asino!”.
È servo si ma capace di “scorribande nel campo culturale”, inoltre è orgoglioso delle sue origini e ne rivendica una dignità che pretende comunque rispetto ergendosi come paladino della calabresità, facendo piazza pulita, con arguzia e ingegno, degli stereotipi appiccicati dalle altre maschere ai suoi conterranei (Carnevale: “Va fa bene à frostiere, le chiù nemmice songo ccreate, Cusentine, né ammice né becine”. Pantuocchio: “Cusentinu l’è nuratu”). Orazio Pugliese è riuscito sagacemente con la figura di Pantuocchio, giocando di penna comica e tenendolo sottotraccia, dopo tante umiliazioni, beffe e sarcasmi, a riscattare la figura del “calabrese” nella commedia.
“Pantuocchio merita un posto tutto suo nel paradiso dei servi che una ne pensano e cento ne fanno (come Pulcinella, Arlecchino e compagnia bella)”, ed è soprattutto il primo calabrese in una commedia scritta da un autore calabrese, mentre tutti gli altri, Giangurgolo, Pagliazzo, Piva ecc, “sono di mano, per così dire, forestiera!”.
La maschera di Pantuocchio, servo di un qualunque re Carnevale, è anche l’amore carnascialesco in un meridione affamato e ingordo, rappresentato in queste battute da lui esclamate: “Friccicarella mia, cumu cardilla, tu di biddizzi n’hai mezza scodella, si saporita cumu na nucilla, cusi si, cori miu, rusicarella”. E ancora: “Cecca mia bella cara, m’ha graputu stu core, c’ha fattu na spaccazza di quattuordici parmi, Beni miu, addu sì ca m’esce st’arma?”.
L’autore dichiara dal primo momento che il personaggio di Pantuocchio è calabrese ma leggendo con attenzione la farsa scopriamo che è cosentino! Sebbene la vicenda sia ambientata a Pizzofalcone, il protagonista, nelle sue battute, non solo si dice onorato di essere “cusentinu” ma cita più volte la città stessa di Cosenza come se la conoscesse benissimo. Inoltre nell’intenso dialogo con Cecca, quando gli rivela di essere anch’essa cosentina, figlia di un tale Antonio Facemelu, di essere stata rapita da bambina al “Ponte de le Revocate” e di aver poi cambiato il suo vero nome Cardonea con quello di Cecca, i due scoprono di essere fratello e sorella, anche per un segno di famiglia che hanno sul naso! La maschera con ogni probabilità calcò le scene proprio a Napoli, dove il sacerdote castrovillarese rimase a lungo frequentando gli ambienti teatrali e i commedianti del tempo. Infatti l’opera fu commissionata da Carlo Troyse dedicandola alla moglie Giovanna Marzio. Non si sa come fu accolta dai contemporanei e se in Calabria se ne ebbe conoscenza ed eco. Ma l’opera, secondo il Palange, è “tecnicamente assai sapiente e smaliziata, uno spumantino d’annata dal calibratissimo perlage, dove vi si ritrova addirittura tutto il bagaglio professionale dei commedianti del tempo, dai travestimenti agli equivoci verbali, alle trivialità, alle gags, ecc”.
La maschera è stata “riportata in vita” dai professori e dagli studenti dell’Istituto Alberghiero IPSEOA “Karol Wojtyla” di Castrovillari in un progetto dal titolo “A tavola con Pantuocchio”.
Ecco il testamento di padron Carnevale :
“E mentre a morire vado
sentite tutti il mio Testamento:
… dichiaro nemico capitale
Chi per la morte mia non porta lutto.
E tu Pantuocchio mio, benché sei stato il mio peggior nemico, con questo patto
Và, sei perdonato ….
Chiama a chillo amico mio Spellecchia
dille che venda la carne vaccina separata da chella d’annecchia.
dille ca la carne de vitiello
non se tenga co chella de lo vavo.
E damme à li chianchiere mille abbracci ca sò state lo ‘nore de sta faccia…”
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