Pronto soccorso di Cosenza: «da 8 giorni un migrante affetto da epatocarcinoma in attesa di un posto in reparto»

A denunciare il fatto è Emilia Corea che racconta le condizioni di chi arriva al Pronto soccorso, nel cosiddetto 'Open Space' dove "i malati senza distinzione di genere giacciono per diversi giorni, a volte settimane"

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COSENZA – «Lo hanno chiamato “Open Space“, come se l’uso dell’anglicismo potesse dare una parvenza di serietà a quello che è a tutti gli effetti il limbo nel quale sono costretti a sostare i malati che giungono al pronto soccorso di Cosenza. Un limbo costato (unitamente alla ristrutturazione del Pronto Soccorso) un milione e duecentomila euro, pomposamente inaugurato lo scorso luglio e definito dal commissario De Salazar “un pronto soccorso veramente invidiabile”. Un cartello strategicamente esposto per lo sfarzoso evento recitava: “i nostri valori: buone cure con dignità, rispetto, umanità”». Sono le parole di Emilia Corea dell’Associazione La Kasbah.

“L’Open Space”

«L’area adiacente al pronto soccorso avrebbe dovuto ospitare, in seguito al restyling milionario, 8 posti letto per accogliere i pazienti che sostano al PS – prima di essere trasferiti nei reparti o dimessi – sempre nel rispetto dei tanto sbandierati principi di umanizzazione della cura. Fin qui la promotion (fa figo l’anglicismo random) da parte di commissari sanitari, dirigenti, presidente di regione e sindaco di Cosenza».

«L’area nella quale dimorano i malati, nei fatti, è uno stanzone che richiama alla memoria i lazzaretti della peste manzoniana: uno stanzone all’interno del quale sono stipate ben 24 barelle, distanziate l’una dall’altra pochi centimetri. Uno stanzone, servito da un solo bagno (spesso sudicio) per gli uomini e uno per le donne, nel quale i malati senza distinzione di genere giacciono per diversi giorni, a volte settimane. Con buona pace di tutti i politici di questa maledetta regione nella quale si è costretti a sanguinare, a soffrire, a morire nell’indifferenza degli amministratori locali, di quelli che godono di assistenza sanitaria privilegiata all’interno delle cliniche private profumatamente sovvenzionate».

Il caso di un migrante

«E se a finire dentro al pronto soccorso di Cosenza (pardon Open Space) è un migrante, l’incuria e l’abbandono anche da parte di medici e personale infermieristico sono assicurati. Da 8 giorni un cittadino ghanese affetto da epatocarcinoma con la complicanza di trombosi neoplastica è stato posizionato all’interno dell’Open Space in attesa di essere trasferito in reparto per l’esecuzione di una gastroscopia. Nessun trattamento, ad eccezione dell’eparina che lo stesso avrebbe avuto la possibilità di somministrarsi da solo a casa propria, è stato effettuato. Abbandonato su una barella da oltre una settimana con una trombosi neoplastica in atto, in attesa di un posto in un reparto che mai si libererà».

«Perché se non hai le spalle coperte, un familiare che faccia la voce grossa o, molto più semplicemente, delle buone conoscenze o – ancor meglio – gli agganci politici giusti, quel misero posto in reparto non lo avrai mai. E su quella barella puoi anche morire. Così come è capitato qualche sera fa a una signora deceduta subito dopo essere stata spostata dal pronto soccorso nell’Open Space e il cui corpo senza vita è rimasto a lungo esposto sulla barella, in mezzo e a fianco ad altri 23 malati, prima che venisse portato via».

«Mi chiedo come facciano a dormire sonni tranquilli gli amministratori di questa regione – tuona Emilia Corea – mi chiedo come si possa mostrare così tanto disamore e disaffezione per la propria terra. Me lo chiedo da anni, tutte le volte che a causa del mio lavoro sono costretta a recarmi al pronto soccorso, a toccare con mano le conseguenze del malaffare, della disumanità, del menefreghismo di chi ci governa. Mi auguro di cuore che tutti coloro i quali ci hanno ridotto in queste condizioni siano costretti, a loro volta, a dimorare per lunghi giorni e lunghe notti tra i corridoi del pronto soccorso o nello stanzone dell’Open Space. Non è una bestemmia ma una speranza dalle finalità pedagogiche. Perché provare sulla propria pelle la sofferenza alla quale ci hanno condannato nell’Ospedale di Cosenza è, forse, il migliore trattamento terapeutico per il capovolgimento di un sistema sanitario nel quale la dignità dei malati viene quotidianamente calpestata».

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