Caso Bergamini, Isabella Internò condannata a 16 anni di carcere. Le lacrime di Donata e l’abbraccio della famiglia
La corte D'assise di Cosenza ha condannato a 16 anni di reclusione Isabella Internò oltre al risarcimento del danno per le parti civili. Per Roberto Internò (cugino di Isabella) atti rinviati in procura come possibile coautore in concorso del delitto
COSENZA – La Corte d’Assise del tribunale di Cosenza, presieduta dal giudice Paola Lucente, ha condannato Isabella Internò a 16 anni di carcere. La sentenza è stata letta poco dopo le 19:00 in un’aula stracolma di persone e giornalisti, dopo circa 8 ore di camera di consiglio. Alla Internò sono state concesse le attenuanti generiche ed escluse le aggravanti della crudeltà e del mezzo venefico. Confermata invece quella della premeditazione. L’ex fidanzata di Bergamini è stata condannata anche al risarcimento delle spese in favore delle parti civili per circa 300mila euro. La Corte ha inoltre condannato Internò all’interdizione perpetua dai pubblici uffici e dei diritti civili per la durata della pena. La Procura aveva chiesto per l’ex fidanzata del calciatore 23 anni di reclusione.
Roberto Internò possibile coautore in concorso del delitto
Come richiesto dalla Procura la Corte ha richiesto la trasmissione degli atti per falsa testimonianza di Assunta Trezzi, Concetta Tenuta, Dino Pippo e Roberto Interò, Michelina Mazzuca, Luigi D’Ambrosio e Raffaele Pisano.
Per la figura di Roberto Internò (cugino di Isabella) atti rinviati in procura anche come possibile coautore in concorso del delitto (art. 575 cpp). Un vero e proprio colpo di scena. Roberto Internò, colui che materialmente andò a prendere la Internò a Roseto Capo Spulico. In un’intercettazione parlava animatamente con la moglie Michelina Mazzuca. «In quella conversazione – dichiarò l’avvocato Anselmo – si fanno i nomi di chi ha ucciso Denis. Michelina cerca di rassicurare il marito, dicendo di aver difeso Isabella, suo padre Franco e il cugino Dino Pippo Internò durante gli interrogatori».
Isabella Internò, apparsa incredula, è uscita dall’aula sorretta dal marito mentre dall’altra parte le lacrime della famiglia Bergamini con l’abbraccio di Donata ai figli e ai suoi avvocati. Una sentenza che arriva dopo 12.775 giorni, 35 anni lunghissimi anni, dalla morte di uno dei giocatori più amati del Cosenza Calcio. Il suo numero 8, che capovolto è il segno dell’infinito, infinito esattamente come il talento strabiliante di Denis Bergamini. Al termine di 66 udienze e tre anni di processo la sentenza che mette un punto su una lunghissima e dolorosa vicenda. Quello di Bergamini è stato un omicidio.
Bergamini: le tappe di un’inchiesta lunga 35 anni
È il 18 novembre 1989, sono da poco passate le 19.00. Sulla statale Jonica 106, a Roseto Capo Spulico, un uomo giace a terra, ai bordi della carreggiata. Si chiama Donato Bergamini, ma per tutti è Denis, e così continueranno a chiamarlo. Ha 27 anni, è un calciatore conosciuto, tesserato con i rossoblu e gioca in Serie B. Ha giocato con Imola e Russi, prima di trasferirsi – nel 1985 – con la formazione silana dove si afferma e consacra come uno dei migliori ed emergenti centrocampisti. Fiorentina e Parma, club di Serie A, si sono interessate a lui. Bergamini è nel momento chiave della sua carriera.
Suicidio, si dice e si scriveva all’epoca. A sostenere questa tesi una dinamica dei fatti che venne così spiegata: Bergamini si è buttato sotto un camion Iveco, guidato da Raffaele Pisano, davanti agli occhi della sua fidanzata, Isabella Internò, una ragazza appena maggiorenne. Il suo corpo trascinato per oltre sessanta metri sull’asfalto. Isabella sostiene che lei e Denis stanno insieme da un anno. Si sono visti dopo che il calciatore ha lasciato il cinema Garden di Rende, dove era con i compagni di squadra. In giorni di relax in vista dell’attesa sfida contro il Messina, quasi un derby. Denis è al cinema con i compagni quando riceve una telefonata. Esce dalla sala, sale in macchina – una Maserati – e raggiunta la ragazza dirigendosi verso Roseto Capo Spulico ad oltre 105 Km da Cosenza. La fidanzata è l’unica testimone e conferma la tesi del suicidio.
Le ultime ore di vita di Denis
Per i giocatori del Cosenza quel sabato pomeriggio d’autunno significa riposo. Prima di incontrare il Messina, la squadra si era concessa qualche ora di relax al cinema Garden, ma prima dell’inizio del film Donato, si era allontanato dopo aver ricevuto una telefonata. Alle 17.30 la sua Maserati bianca viene fermata ad un posto di blocco lungo la Statale 106 Jonica, ma il controllo fu “sbrigativo” perché gli uomini in divisa cercavano una Opel, in fuga dopo una rapina. Insieme a lui, all’interno di una Maserati bianca, Isabella.
È lei a ricostruire, dopo la tragedia, gli ultimi minuti di vita del calciatore. La fuga da Cosenza, il viaggio fino a Taranto per scappare all’estero, stanco, ha raccontato, dell’Italia e del calcio e quel lancio sotto la ruota di un camion. È stata la Internò a dire al camionista Raffaele Pisano che ha appena “arrotato” il calciatore: «è il mio ragazzo, si è suicidato». Il conducente racconterà di essersi accorto solo all’ultimo di quell’uomo biondo fermo sul ciglio della strada e di non avere potuto fare nulla per fermarsi. Finirà alla sbarra, con l’accusa di omicidio colposo, salvo poi essere assolto perché il fatto non sussiste. Suicidio, dunque.
I dubbi della famiglia sulla tesi del suicidio
Ma la famiglia, in particolare la sorella Donata ed il padre Domizio, arrivati a Cosenza dopo aver appreso della morte, non credono alla tesi che il calciatore si sia volontariamente lanciato sotto un camion. Troppo elementi che non tornano a cominciare dai vestiti e dall’orologio, rimasti intatti e poi dal corpo di Densi che la sorella ha sempre definito perfetto. “Ci dissero che Denis si era gettato davanti al camion e fu trascinato: macché trascinato per 60 metri, questo non era il viso di chi veniva colpito da un camion in corsa“.
Meno di due mesi dopo i primi sospetti
Con inspiegabile ritardo il PM solo a gennaio decide di far eseguire l’autopsia su Bergamini e ordina la riesumazione del corpo. La perizia è condotta dal professor Avato che scatta una serie di foto fondamentali e fa le sue ipotesi in una consulenza che avrebbe dovuto ripetere durante l’incidente probatorio, diventando una prova da utilizzare in un eventuale processo. A gennaio del 1990 nella relazione Francesco Maria Avato scrive che il corpo di Bergamini è stato schiacciato da una ruota di un camion, lentamente. Si presume: volontariamente. La tesi del suicidio per la prima volta vacilla. ll professore fa notare come sia impossibile il trascinamento, come le ferite siano concentrate solo su una parte (sul fianco destro) e riconducibili a un sormontamento del camion, vale a dire le ruote fatte passare sopra un corpo steso per terra. Ma Avato non sarà mai sentito, né durante l’incidente probatorio, neppure al processo del 1991 con Pisano unico imputato (poi assolto) per omicidio colposo.
Nel 2011 la riapertura del caso. Tre anni dopo l’archiviazione
Nel giugno del 2011, la Procura di Castrovillari, condotta dal procuratore capo Franco Giacomantonio e dal PM Maria Grazia Anastasia, dopo una perizia del Ris di Messina, riapre il caso e cambia il reato di accusa. Si ridisegna la scena del suicidio, che diventa un omicidio. La tesi è che Bergamini non sia stato investito dal camion guidato da Pisano. Ma nel dicembre 2014 la magistratura chiede l’archiviazione per i due indagati nell’inchiesta: l’ex fidanzata del calciatore, Isabella Internò, per omicidio volontario in concorso, e Raffaele Pisano, per favoreggiamento e falsa testimonianza. Per il Gip gli indizi non sono sufficienti. Non vi sono prove, né certezze per istruire un processo per omicidio volontario”.
Colpo di scena: si riaprono nuovamente le indagini
Nel 2015 le indagini vengono riaperte dall’ex procuratore Capo della Repubblica di Castrovillari Eugenio Facciolla e smentiscono nuovamente il suicidio del del calciatore di Boccaleone d’Argenta. Le perizie vengono affidate ai professori Antonello Crisci, Carmela Buonomo e Maria Pieri. Scriveranno nero su bianco che il calciatore è stato soffocato “verosimilmente con una busta di plastica” e poi “adagiato sull’asfalto a pancia in su”.
Il corpo di Denis non presenta traumi da schiacciamento. L’orologio che aveva al polso e la catenina che portava al collo sono intatti. Nel 2017 la procura riesce a ottenere dal Gip qualcosa che non gli era stato mai concesso prima: la riesumazione del corpo di Bergamini. Il calciatore fu vittima di un’asfissia meccanica di compressione con un mezzo soft, prima che il camion di Raffaele Pisano o sormontasse. Quindi le versioni di Internò e Pisano sono completamente false. Bergamini era già morto prima che il camion arrivasse. Il 27enne era stato prima stordito con del cloroformio o una sostanza simile, poi strangolato. L’esame con la glicoforina, dibattutissima nei tre anni di processo avrebbe rivelato questo.
Il rinvio a giudizio della Internò
Così il 20 settembre 2021 il Tribunale di Castrovillari rinvia a giudizio la Internò, a deciderlo il Gup di Castrovillari Fabio Lelio Festa accogliendo la richiesta del PM Luca Primicerio, l’accusa è di aver ucciso (o fatto uccidere) il fidanzato per gelosia, o per onore. Per il Gip sussistono gli elementi per processare Isabella Internò con l’accusa di omicidio volontario. Le accuse contro la donna sono di concorso in omicidio, aggravato dalla premeditazione e dai motivi abietti e futili. Per l’accusa infatti, «in concorso con altre persone rimaste ignote» avrebbe narcotizzato e «asfissiato meccanicamente con uno strumento soft» Denis e poi «adagiato il suo corpo, già morto, sulla statale allo scopo di farlo investire da uno dei mezzi in transito».
La richiesta di condanna a 23 anni
Per la difesa resta solo un doloroso suicidio
Ieri la veemente arringa difensiva dell’avvocato della Internò Pugliese, che aveva chiesto l’assoluzione perché il fatto non sussiste: “Bergamini si è suicidato buttandosi sotto il camion che gli è passato sopra due volte. Isabella Internò dall’inizio ha sempre detto la verità, anche se questo significava far perdere il risarcimento alla famiglia Bergamini. Rivolgendosi ai giudici aveva detto: «questo processo ci fa tornare indietro di 500 anni, quando il capopopolo gridava al rogo al rogo! Per 35 anni Isabella Internò è stata messa alla gogna. Per questa morte, sicuramente dolorosa, non può pagare Isabella Internò che è innocente». Per il difensore la tesi del suicidio regge: «era depresso per un brutto infortunio, una zia si era suicidata alcuni anni prima e, quindi, in famiglia c’era già stato un precedente. Inoltre su di lui erano state fatte delle indagini su una presunta sieropositività». Oggi la sentenza che condanna la Internò a 16 anni di carcere.