Violenza di genere, meccanismi perversi. Una psicoterapeuta cosentina racconta il «mostro»

Quando un barlume di forza spinge a chiedere aiuto, ci si scontra con una società che spesso minimizza, e la vittima si sente persa
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COSENZA – “Avevamo il mostro in casa e non ce ne siamo accorti”. Così Serena Dandini nel suo libro ‘Ferite a morte’ racconta la violenza e lo stupore delle vittime che prendono consapevolezza di un’aggressione che finisce poi per scarnare l’anima, consuma e macera dentro. I numeri gridano azioni brutali, giorno dopo giorno, in divenire è un continuo di mostri in casa, ‘inconsapevoli’ fino a quando lo specchio della realtà ne smaschera l’orrore. Misero è il volto della bestia che è in lui. Parlare di violenza è ormai abituale, ma accettare che la violenza sia normalizzata in questa società, è davvero difficile. Abbiamo incontrato Simona Nigro, psicoterapeuta cosentina e docente dell’Istituto delle Psicoterapie di Roma.

Il mostro che vive in casa

Un padre, un fratello, un riflesso di sè che diventa agonia e terrore

«Una violenza perpetuata come nel caso di San Ferdinando, in un ambiente familiare. Un luogo che dovrebbe essere di protezione sostegno e cura. Purtroppo alla base c’è sempre un substrato culturale che vede l’uomo padrone verso la propria donna e i figli. Se poi uno di questi figli, diventa l’oggetto per sfogare le proprie frustrazioni e si unisce il resto dei componenti come agenti di botte insulti e minacce, si fatica a trovare la radice. Spesso nascosta dietro ad una patologia, ma ancora più frequente, prodotto appunto della cultura e dell’indifferenza della società».

Società indifferente, lontana, impaurita forse dalle conseguenze

«Nessuno avrà sentito i lamenti? Nessuno avrà notato qualcosa da allertare i servizi sociali? Le forze dell’ordine ?
La verità è che ci si abitua alla violenza – spiega la d.ssa Nigro – quando questa è l’unica comunicazione che si conosce. Ci si abitua quando intervenire fa paura perché si potrebbero avere ritorsioni. Perché girarsi dall’altra parte è funzionale alla propria sopravvivenza».

Difficile anche chiedere aiuto, paradossale ma vero

«La vittima vive quello che si chiama ‘impotenza appresa’. Perché se è sempre stato così, perché dovrebbe essere diversamente? Quando poi un barlume di forza ti spinge oltre tutte le forze rimaste a chiedere aiuto, ci si scontra con una società che spesso minimizza o sdrammatizza. Specie se si vive un un piccolo paese, dove tutti conoscono tutti, e nessuno mai farebbe un torto a tizio o  Caio. Nella mia esperienza decennale ho assistito molte donne che si sono sentite sminuite e sottovalutate. Donne che sono state additate come artefici della violenza ricevuta. Che hanno detto o fatto qualcosa per provocare l’agito. Le vittime che denunciano si sentono sole molto spesso. Questa è la verità. Hanno paura di perdere i figli, specie se non hanno un’indipendenza economica. Stesso motivo per cui sovente si resta nell’ambiente violento. Hanno paura del giudizio della gente di quel mezzo sorrisetto del ‘se l’é cercata’».

La violenza nutre la complicità di chi la subisce e di chi l’osserva

«Una volta una mamma mi ha raccontato come la figlia, sia stata massacrata a coltellate ed ha riferito che in un’intercettazione la madre dell’assassino ha pronunciato testuali parole ‘figlio mio ammazzandola l’hai santificata a quella puttana’. Di fronte a questo cosa vogliamo aggiungere? Sicuramente che il frutto non cade mai troppo lontano dall’albero. L’autodeterminazione dell’essere umano è subordinato alla volontà del più forte, del più potente, del più in vista in paese».

Cosa possiamo fare per smascherare il mostro e buttarlo via da quella casa e dalla vita di chi lo subisce?

«Dobbiamo riscoprire il coraggio e la fiamma della coscienza per non girarci sempre dall’altra parte. Scuola istituzioni servizi sociali, comuni cittadini. Quando un fenomeno di violenza rimane indisturbato, la responsabilità è di tutti, indistintamente. È facile poi fare commemorazioni il 25 novembre. Resta tutto un palcoscenico vuoto e con poco eco. E si tenga altresì presente che lo Stato italiano non garantisce la giusta pena. Lo Stato ‘premia’ il violento e l’assassino con il rito abbreviato. E se io do uno schiaffo e tu resti lì, perché dovrei pensare che non posso dartene un altro? Cosa me lo impedisce? Nulla. È tutto un silenzio assenso».

Può raccontarci una delle difficili storie che ha seguito, per capire quanto purtroppo sia ancora difficile denunciare gli abusi?

«Ho seguito una persona in particolare, vittima del marito che è arrivato addirittura a provare a strangolarla, ed è stato fermato solo dall’intervento della madre di Lei che fortunatamente era in casa. La ragazza ha denunciato ma lui, facendo parte di una famiglia molto in vista, per un po’ ha avuto la meglio. Tutto il paese – racconta la d.ssa Nigro – guardava la donna come ‘la traditrice’ tanto da costringerla a dover cambiare paese. Ora vive in provincia di Cosenza, prima nel Crotonese. La famiglia di lui ha fatto diverse pressioni agli avvocati tanto da costringere la donna (supportata da me) a cambiare avvocato. La denuncia è partita, ma fino alla prima udienza la donna ha cambiato completamente la propria vita, è stata costretta a licenziarsi e a cambiare avvocato ed abitudini. Quindi sì, le donne che denunciano non si sentono sempre tutelate, ed è proprio per questo che spesso indietreggiano. Fortunatamente esiste qualcuno che insiste e persiste nella giustizia e si arriva ad una nuova vita. Spesso però si torna indietro; per solitudine, paura o mancanza di risorse economiche».

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