Un calabrese in prima linea contro il Greenwashing, ecco i 4 casi più eclatanti
I consumatori privilegiano l’acquisto di prodotti sostenibili. E le aziende ad apparire Green. La realtà però, a volte, non rispecchia l’immagine trasmessa dall’impresa ai potenziali clienti
COSENZA – «Stiamo denunciando episodi di sospetto greenwashing nelle pubblicità (etichettature e packaging compresi) in tutti gli ambiti merceologici» afferma l’avvocato calabrese originario di Nicastro Giuseppe d’Ippolito cassazionista specializzato in Diritto ambientale nonché in Diritto dei Consumatori e Utenti, presidente di Giusto&Sostenibile, che dagli anni Novanta ha patrocinato diversi contenziosi in materia per conto dell’ACU (Associazione Consumatori Utenti). Fondatore e promotore del network ClimateAid che si occupa di monitorare e divulgare pratiche sostenibili, in qualità di parlamentare è stato membro delle Commissioni Ambiente e Giustizia. Oltre ad essere stato il legale di fiducia di Beppe Grillo, ha insegnato Diritto Civile all’Università della Calabria, alla Luiss, all’Università degli Studi di Salerno e alla Sapienza di Roma dove è stato anche assistente del compianto giurista cosentino Stefano Rodotà. Presiede l’Albo Regionale dei Gestori Ambientali presso il Ministero dell’Ambiente e per un periodo per conto della Protezione Civile fungeva da consulente del commissario per l’Emergenza Ambientale in Calabria.
La tutela dei consumatori in Italia
«Sono almeno trent’anni che seguo il tema della correttezza, rispetto ai consumatori, della comunicazione commerciale. L’ACU è stata la prima associazione di consumatori italiana a rivolgersi all’IAP (Istituto d’Autodisciplina Pubblicitaria), ancor prima che esistesse una legge italiana sulla correttezza pubblicitaria e la vigilanza dell’AGCM (Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato). L’associazione aveva avviato un progetto che si chiamava “Osservatorio della Pubblicità e della Comunicazione di Massa” per conto del quale ho patrocinato molti contenziosi in materia di pubblicità ingannevole. In quegli anni in Italia il greenwashing non esisteva. Il fenomeno della pubblicità ingannevole è esploso da noi solo negli ultimi tempi. Un periodo storico in cui le scelte dei cittadini privilegiano sempre più aziende e brand che si richiamano a valori ambientali e di tutela degli ecosistemi. I casi di greenwashing che si sono conclusi con condanne dell’AGCM o del Giurì dello IAP, sono tutti collegati alla constatazione di una violazione dipendente da dichiarazioni non veritiere. Nelle 20 segnalazioni che ho presentato di recente non si discute tanto della verità dei claim, quanto dell’impossibilità concettuale e logica di definire una fornitura inquinante di gas come “sostenibile” o di affermare che può essere venduta agli utenti, esclusivamente e selettivamente, solo elettricità prodotta da fonti rinnovabili e non fossili».
1 – Il caso San Benedetto
«Il 13 gennaio 2010, il gruppo San Benedetto è stato condannato a pagare una multa di 70.000 euro per avere pubblicizzato la propria bottiglia di plastica “amica dell’ambiente”. Marketing costruito su studi che avrebbero consentito di “ridurre almeno del 30% la quantità di plastica impiegata e quindi di contenere il consumo di energia”. In realtà l’Antitrust ha accertato che San Benedetto non aveva effettuato ricerche per dimostrare la riduzione dell’impatto ambientale e delle emissioni in atmosfera di anidride carbonica. Il risparmio energetico e di materie prime ottenuti grazie alle nuove bottiglie non era stato effettivamente calcolato». La San Benedetto ha impugnato il provvedimento dell’AGCM chiedendone l’annullamento, ma la sezione VI del Consiglio di Stato, nel 2017, ha respinto il ricorso in quanto “i claims apparivano in grado di trarre in inganno i consumatori”.
2 – Il caso Ferrarelle
«Nel 2011, la Ferrarelle è stata condannata per aver usato l’affermazione “ad impatto zero”, perché “compensa la CO2, emessa nell’atmosfera per produrre questa bottiglia di acqua con la creazione e la tutela di nuove foreste“. In realtà – secondo il Giurì dell’Autodisciplina Pubblicitaria – la riforestazione si riferiva solo alla quantità di emissioni di anidride carbonica relative alle bottiglie, per cui restavano fuori le altre emissioni inquinanti collegate al processo produttivo». Il procedimento si è concluso con un accordo tra le parti e l’IAP ha imposto la rimozione delle pubblicità diramate ritenute ingannevoli.
3 -Il caso Sant’Anna
«Nel settembre 2012, la Sant’Anna è stata multata di 30.000 euro per l’eco-bottiglia “BioBottle” promossa come l’eco-bottiglia amica dell’ambiente che garantiva un consumo responsabile, perché essa, prodotta con il biodegradabile PlaINGEO® avrebbero permesso, ogni 650 milioni di bottiglie, un risparmio di 176.800 barili di petrolio (utili a riscaldare per un mese una città di 520.000 abitanti) e ridotto le emissioni di CO2 pari a un’auto che compia il giro del mondo per 30.082 volte in un anno. L’Autorità garante della concorrenza e del mercato, ha invece accertato che il dato di ‘650 milioni di bottiglie’ citato negli annunci pubblicitari, faceva riferimento all’intera produzione annua di bottiglie Sant’Anna, fabbricate sia in plastica (Pet) che in PlaINGEO® (BiBottle)». L’azienda sembrerebbe non abbia inteso ricorrere al Tar del Piemonte, scegliendo di pagare la sanzione.
4 – Greenwashing, il record di Eni
«Il record per la più alta sanzione irrogata dall’AGCM (20 dicembre 2019) riguarda l’ENI che aveva definito il proprio gasolio come “green diesel”, contrariamente al vero secondo quanto accertato dall’Antitrust che ha imposto di non utilizzare più la pubblicità e disposto una sanzione amministrativa, per pratica commerciale scorretta di 5 milioni di euro “pari al massimo edittale, tenuto conto della gravità e della durata della violazione». L’Eni ha presentato ricorso al Tar del Lazio, che però nel novembre 2021 lo ha respinto confermando la sanzione da 5 milioni di euro.