Il disastro delle carceri, Di Giacomo (SPP) «lo Stato ci ha abbandonato»

Dal complicato vissuto degli operatori Penitenziari all'arruolamento: «un lavoro che potrebbe essere anche gratificante se messi nelle condizioni adeguate»

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MILANO – Il Sindacato di Polizia Penitenziaria (SPP) guidato da Aldo Di Giacomo continua la sua marcia verso quella che ha tutta l’aria di essere un’autentica sfida contro il sistema considerata la difficile situazione nella quale è stato suo malgrado calato il mondo delle carceri italiane. Stiamo parlando del complicato vissuto degli operatori Penitenziari strutturatosi all’interno degli istituti di pena nazionali e del trattamento che quotidianamente i poliziotti Penitenziari subiscono a seguito di un evidente scollamento che si è andato creando tra chi vive sul fronte e chi, invece, si ritrova a gestirne le dinamiche generali, politica compresa.

Dinanzi al carcere minorile “Cesare Beccaria”, Di Giacomo, ha risposto alle domande dei giornalisti e rilasciato toccanti considerazioni sui poliziotti arrestati, che da quasi sei mesi, sono ancora in custodia cautelare. C’ha tenuto, a tal proposito, a precisare ( fermo restando il fatto che chi sbaglia è giusto che paghi) che un agente appena arruolato ( tali sono per lo più quelli arrestati) non può essere equiparato a un criminale patentato, ammesso che un crimine sia stato mai commesso visto che i tre gradi di giudizio valgono per tutti; così come ha voluto evidenziare il fatto che chissà perché tutti i problemi emergenti in carcere vengono ascritti solo e soltanto ai poliziotti Penitenziari.
Sarebbe troppo pesante, secondo Di Giacomo, la misura presa nei confronti degli arrestati ragion per cui ne ha chiesto la scarcerazione.

Il mestiere del basco blu

Per Di Giacomo “è divenuto molto complicato e questo grazie anche a uno Stato che ha abbandonato il sistema penitenziario a se stesso”. Questi sono stati gli elementi cardine del discorso fatto fuori dal penitenziario. Non meno benevoli sono state le considerazioni fatte invece da Mauro Nardella, vice di Di Giacomo.

“Un lavoro che ha un’immane umanità ed un indiscusso e quasi innaturale spirito di sacrificio elargiti dalle donne e dagli uomini della Polizia Penitenziaria – spiega il vice segretario generale Nardella – che fa da contraltare ad un pessimo trattamento a loro riservato e fatto di diritti mancati ( ce ne sarebbe da discutere fino a sera per elencarli tutti) e violazioni subite come, ad esempio, quella della menomazione fisica e soprattutto psichica subìta dai 2000 e più poliziotti aggrediti dall’inizio dell’anno”.

“Il clima che si vive all’interno dei penitenziari italiani, e non solo minorili, è diventato talmente irreale, per non dire invivibile, da portare molti dei nuovi agenti appena usciti dal corso a optare per altre professioni”.

“Sono ben 300 i neofiti (gli ex per meglio dire), infatti, sui 2700 agenti appena arruolati che hanno deciso di abbandonare una barca che fa acqua da tutte le parti. Io sono oramai 30 anni che vivo dal fronte la professione di poliziotto penitenziario e il ragionamento che faccio nel cercare di provare a spiegare il perché di tali scelte lo tiro fuori non solo da chi porta i segni maturati sul campo ma da potenziale padre visto che gli ultimi assunti potrebbero essere miei figli”.

“Nel tempo – afferma ancora Nardella – c’è stata una metamorfosi culturale e di pensiero nei nostri giovani. La globalizzazione ha favorito un vero e proprio “turismo” professionale da parte di chi non accetterà mai di fare lavori più rischiosi di quelli che troverebbe altrove pur se a decine di migliaia di chilometri. Il nostro non è un lavoro eccessivamente pesante e potrebbe essere anche molto gratificante se messi nelle condizioni di realizzarlo in maniera adeguata. Oggi quel mestiere che trent’anni fa ho deciso di abbracciare e con il giusto piglio è divenuto maledettamente rischioso. Non lo dico solo per le aggressioni che subiamo quotidianamente ma anche e soprattutto per il timore di essere denunciati semplicemente perché ora come ora non ti puoi permettere neanche di salutare il detenuto senza usare la forma che lui ti chiede di utilizzare”.

“Il reato di tortura legato alla componente psicologica questo sta creando. Oggi si ha paura nell’ordinare finanche l’applicazione dell’articolo 41 dell’ordinamento penitenziario. Quello spaccato normativo cioè che permette l’uso legittimo della forza seppur in determinati casi. Se si andrà avanti così ci si potrà anche vantare di aver fatto assumere migliaia di nuove leve ma poi si deve altresì spiegare del perché molti di questi, in brevissimo tempo, abbandonano, cosi come fatto dagli altri, le maturate convinzioni ante arruolamento. Bisogna invertire la tendenza con fatti concreti perché sennò di questo passo in carcere non ci sarà più nessuno a vegliarne la gestione”.

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