Morabito morto che parla, la strana storia del detenuto suicida nel carcere di Paola

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Temeva di essere ucciso. Ufficialmente, si è tolto la vita dando fuoco ad una coperta ignifuga.

 

PAOLA (CS) – Maurilio Pio Morabito aveva le ore contate. Ne era consapevole e chiedeva di essere tutelato. Il quarantaseienne reggino si trovava ristretto in una cella ‘liscia’ nel carcere di Paola quando è stato ritrovato privo di vita. Metterlo nudo in isolamento con a disposizione solo una coperta e un secchio per gli escrementi, era la soluzione migliore che la direzione della casa circondariale paolana aveva posto in essere per garantire l’incolumità del detenuto. In realtà non è servita a nulla. Morabito doveva scontare una pena definitiva di quattro mesi di reclusione per un’evasione dai domiciliari denunciata dieci anni fa, quando era stato arrestato per detenzione di stupefacenti e a causa di un malessere si era allontanato da casa per andare dal medico senza avvisare l’autorità giudiziaria.

 

Un reato banale che il quarantaseienne voleva scrollarsi di dosso chiudendo definitivamente i carichi pendenti con la giustizia. Era stato lui stesso una volta ricevuta la notifica a consegnarsi alle forze dell’ordine spontaneamente chiedendo di essere accompagnato in carcere. “Voglio entrare subito – spiegò arrivato in Questura con le valigie – così per la fine dell’estate sono fuori e posso ricominciare a lavorare”. Un proposito chiaro che nulla lasciava percepire sugli intenti suicidi del detenuto. Conviveva da sette mesi con una donna e voleva continuare a progettare la sua vita da uomo libero. A parte lo psichiatra del carcere, nessuno tra parenti, amici e detenuti ha mai confermato che Maurilio soffrisse di una forte depressione e che voleva togliersi la vita. Anzi. Temeva di essere ucciso e non ne faceva mistero.

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Inizialmente ristretto nel penitenziario di Arghillà di Reggio Calabria aveva chiesto di essere trasferito a pochi giorni dal suo arrivo dopo che in cella gli era stato fatto il ‘cappotto’. Coperto e pestato nell’indifferenza dei secondini del penitenziario reggino. Nelle ore successive all’aggressione la sua cella va in fiamme, lo salvano gli agenti della penitenziaria affrettandosi a chiarire che si è trattato ‘semplicemente’ di un tentato suicidio. Intanto nonostante sia in isolamento continuano a recapitargli ‘pizzini’ intimidatori. Arrivato finalmente a Paola, la situazione non pare migliorare. Morabito è un uomo ‘scomodo’ anche se non sa esattamente il perché. Pare si fosse rifiutato di fare un ‘favore grosso’, ma sulla natura dell’indiscrezione non è dato sapere.

 

“Se dovesse accadere un mio eventuale decesso, – scrisse Morabito – facendo il tentativo di farlo passare per un suicidio, non è così in quanto amo troppo la vita e il mio fine pena è imminente, 30 giugno. Ovvio che l’agente che fa la notte sa. Chiedo a tutela della mia incolumità di essere trasferito in una struttura sita in qualsiasi punto della Penisola purché sia dotata di un’area protetta, inoltre chiedo che per il tempo di attesa affinché avvenga il mio trasferimento sia mantenuto il cancello e il blindo chiuso 24 h e aperto soltanto per i vari colloqui, il divieto di incontro con qualunque detenuto anche lavorante”. Richieste vane. Il 28 aprile i genitori di Morabito, anziani ed invalidi, partono in treno alle 5.00 del mattino da Reggio Calabria per andare a fargli visita. L’uomo si rifiuta di incontrarli. “Non lo avrebbe mai fatto – sostiene la sorella – aveva troppo rispetto ed era troppo premuroso nei loro confronti per fare una cosa del genere. Sapeva con quale fatica avevano raggiunto Paola e non li avrebbe mai fatti tornare indietro senza neanche salutarli”.

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Dopo poche ore a casa Morabito arriva la telefonata che annuncia il dramma. Maurilio è morto. Si è tolto la vita mentre un secondino si era allontanato per prendergli una sigaretta. In pochi minuti sarebbe riuscito a: bruciare una coperta ignifuga con una sigaretta (che pare avesse già fumato visto che ne aveva chiesta un’altra all’agente), creare un cappio con i brandelli di stoffa, legarlo ad una finestra con una rete a nido d’ape, appendersi e lasciarsi morire. Ai familiari non è stato mai consentito di vedere dove Maurilio è stato ritrovato cadavere. Sono però riusciti a richiedere l’autopsia ed assistervi. Degli esami necroscopici si attende ancora l’esito, dovevano essere depositati a luglio, ma sono stati formalizzati solo a fine ottobre e la famiglia e i suoi legali non sono ancora riusciti ad averne copia. L’unica certezza ad oggi è che sul corpo del quarantaseienne pare sia stato ritrovato un piccolo solco sul collo, un segno compatibile con un cavo.

 

La morte sarebbe avvenuta, secondo il medico legale, perché nella caduta pare si sia spezzato l’osso del collo. Gli agenti però avrebbero affermato di averlo trovato in cella che ancora respirava (con una frattura del genere sarebbe dovuto morire sul colpo) e di aver provato a rianimarlo con un defibrillatore di cui nella casa circondariale si è persa traccia. Le indagini intanto proseguono mentre la direttrice del penitenziario Caterina Arrotta latita, evitando ogni tipo di confronto con la stampa. La sorella di Morabito nel frattempo, con amarezza esprime il suo scetticismo “spero che il dramma di mio fratello non si risolva come ‘l’epilessia di Cucchi’. Io non mollo, lo faccio per lui e per tutti le migliaia di figli di mamma buttati in cella senza dignità”. A distanza di pochi mesi dalla morte di Morabito nel carcere di Paola si è registrato un altro presunto suicidio. Si tratta di un trentunenne marocchino Youssef Mouhcine, il quale quindici giorni prima di essere scarcerato si sarebbe tolto la vita inalando una bomboletta di gas. Anche in questo caso i familiari, contattati diversi giorni dopo la morte del ragazzo dopo che il corpo era già stato tumulato nel cimitero di Paola, hanno inteso sporgere denuncia per fare chiarezza sulla vicenda.

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