Area Urbana
Rende, servizi sanitari per migranti e sopravvissuti a violenze: “Quando il camice bianco diventa strumento di potere”
Emilia Corea, coordinatrice dell’equipe socio-sanitaria per l’emersione, la diagnosi e la presa in carico di richiedenti protezione internazionale sopravvissuti a tortura racconta di omissioni e discriminazioni che diventano “violenza istituzionale”. Il caso del consultorio di Rende
COSENZA – Il rapporto tra paziente e operatore sanitario è inevitabilmente segnato da un’enorme asimmetria: conoscenze, linguaggio, capacità di orientarsi nel sistema. Per le persone migranti — spesso senza rete sociale, con un passato traumatico o con documenti incerti — questa disparità può trasformarsi in un abisso. In questo contesto, il camice bianco, simbolo di cura e protezione, può diventare uno strumento di potere e abuso, con effetti devastanti sulla vita di chi dovrebbe essere tutelato.
Su migranti omissioni che diventano violenza istituzionale
Secondo Emilia Corea, coordinatrice dell’Equipe Socio-Sanitaria per l’emersione, la diagnosi e la presa in carico di richiedenti protezione internazionale sopravvissuti a tortura, comportamenti come risposte brusche, rifiuti immotivati, omissioni di cure, mancanza di spiegazioni, richieste assurde di documenti.
E ancora atteggiamenti paternalistici o diffidenti diventano barriere invisibili che impediscono l’accesso ai diritti essenziali. “Omettere una cura, rifiutare una certificazione dovuta, rinviare senza motivo, liquidare un problema complesso con superficialità: sono azioni che, sommate, costituiscono una forma di violenza istituzionale”, denuncia Corea.
Nel caso di donne sopravvissute a mutilazioni genitali femminili (MGF), questa omissione equivale a un’ulteriore ferita: devono convivere con le conseguenze fisiche e psicologiche della violenza subita e al contempo affrontare ostacoli burocratici e professionali nel tentativo di ottenere certificazioni essenziali per l’asilo.
Il caso del consultorio di Rende
Emilia Corea racconta un episodio emblematico: “una donna richiedente protezione internazionale si è vista rifiutare la certificazione medica delle MGF subite, richiesta dalla Commissione territoriale per valutare la domanda d’asilo. La ginecologa incaricata del consultorio ha respinto la richiesta senza fornire motivazioni tecniche, liquidando la situazione come “non di propria competenza” e sostenendo che i consultori siano esclusivamente luoghi di prevenzione.
“È inaccettabile che nel 2025 ci siano ancora professionisti sanitari che si rifiutano di certificare gli esiti delle mutilazioni genitali e lo facciano con atteggiamenti discriminatori e intollerabili”, afferma Corea, citando la legge 9 gennaio 2019, n. 3, e la circolare ministeriale del 2019 che impongono l’obbligo di certificare tali esiti anche a fini giudiziari e di tutela delle vittime.
Corea denuncia inoltre come l’assenza di mediatori culturali o operatori di riferimento renda le persone migranti “invisibili” all’interno delle strutture sanitarie. Richieste legittime vengono spesso rimandate, minimizzate o banalizzate.
“Da soli, diventano invisibili. Da soli, diventano sospetti. Da soli, possono essere rimandati indietro con una scusa, una smorfia, un’alzata di spalle” scrive la coordinatrice, ricordando casi drammatici come quello di Isaac. Affetto da epatocarcinoma allo stadio finale, abbandonato su una barella per 9 giorni, o di Hadmol, paralizzato dal collo in giù, a cui i sanitari dimenticavano di cambiare il pannolone per intere giornate.
“Indossare un camice bianco non dà automaticamente il diritto di esercitare potere e superiorità sugli altri, soprattutto quando si tratta di persone vulnerabili come i migranti”, conclude Corea che sottolinea come la funzione del sistema sanitario sia quella di proteggere, curare e garantire diritti, non creare ostacoli e discriminazioni.

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