Calabria ‘sismica’: viaggio sul Tirreno Cosentino nei violenti terremoti del 1783

Arrivato a Scalea davanti agli occhi del segretario del re Ferdinando IV di Borbone si parò “un tetro e denso velo di una nebbia e un certo che di pesante”

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COSENZA – Ben 5 terremoti con magnitudo superiore a 5.9 in soli 2 mesi. E scosse che andarono avanti per quasi tre anni. Era il 1783 e la Calabria meridionale veniva devastata da violenti eventi sismici e tsunami che rasero al suolo Reggio e Messina. Alcune aree del Reggino, dove vi furono oltre 50mila morti, avevano cadaveri al bordo delle strade.

In misura decisamente minore, anche la provincia di Cosenza fu duramente colpita da quello che l’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia inserisce tra i periodi sismici più lunghi e disastrosi della storia italiana. Lo stato dei luoghi viene documentato e restituito al re delle Due Sicilie Ferdinando IV di Borbone da un gruppo di 13 studiosi della Reale Accademia delle Scienze e delle Belle Lettere di Napoli.

Viaggio nel Tirreno cosentino dopo i terremoti

Stralci di questo voluminoso atto descrivono gli effetti della catastrofe sulla fascia del Tirreno cosentino. Il viaggio nella Calabria martoriata e terrorizzata dai terremoti è riportato dal segretario della Reale Accademia delle Scienze nelle Osservazioni fatte nelle Calabrie e nella frontiera del Valdemone sui fenomeni del tremoto del 1783. Partiti da Napoli il 5 aprile del 1783, credevano di trovarsi di fronte ad una ridente regione ornata di grazie della natura. Invece “si parò davanti agli occhi nostri un tetro e denso velo di una nebbia e di un certo che di pesante”. Erano approdati a Scalea, che rispetto al resto della regione non aveva registrato particolari danni. La terra, colpita dai terremoti di febbraio e marzo, continuava a tremare. Una vivace scossa diede il benvenuto agli studiosi.

Da Diamante a Cetraro i segni del terremoto

Il gruppo di accademici proseguì alla volta di Diamante dove trovano una popolazione spaventata. Per la prima volta dal loro arrivo videro che “gli uomini si erano ricoverati sotto la tutela di rozze capanne e di piccole baracche”. Non c’erano state particolari devastazioni, ma la maggior parte della gente non intendeva rientrare nei propri “fragili tuguri” danneggiati dalle numerose scosse. A Cetraro gli edifici manifestavano i segni dello scomponimento causato dalle crepe createsi dopo i terremoti. L’11 aprile 1783, all’indomani dell’ennesimo sisma gli abitanti apparivano smarriti. Gli studiosi borbonici presenti rilevarono che “il mare ha ben di molto cangiato”. Osservano come la spiaggia si è ristretta e in alcuni punti “la sponda è per poco tratto non ingombrata dal mare”.

Le scosse a Paola, Fuscaldo, San Lucido e Amantea

A Fuscaldo si rendono conto che procedendo verso sud crescevano i disastri. “Erano cadute in parte alcune fabbriche della Chiesa e del Convento de’ PP. Paolotti. In molte case apparivano sensibili lesioni”. Giunti a Paolanon solo era aumentato il numero delle lesioni, ma alcune erano degenerate in un’immagine di sconquasso non compiuto. Il castello appariva ruinante. Il Collegio degli Espulsi rimase in parte diruto: nel Palazzo dei Rocchetti tre muri erano già adagiati al suolo e in molte altre case vedevansi sensibili lesioni”.

A San Lucido il terremoto del 5 febbraio squarciò il castello e ne fece crollare il lato occidentale. Furono rasi al suolo tutti i piccoli edifici dove si lavorava la seta. E i Templi ne rimasero oltraggiati. Sul Tirreno Cosentino il sisma colpì in maniera diffusa anche Belmonte parte del suo castello divenne pericolante, un’altra diroccata. E mentre a Lago poche e leggere erano le alterazioni registrate, ad Amantea le scosse avevano provocato danni tali che gli “avanzi dell’antica Nepezia, per molta parte, non sono più affatto abitabili”.

“Tutto è sparso di enormi voragini”

Le condizioni riscontrate sul territorio di San Lucido incuriosirono gli accademici borbonici. “Il tutto – scrivono – è in gravissimo rovescio. Il monte, detto di San Giovanni, è in molte parti sgretolato. Il lago dello stesso nome perdette talmente l’antica sua profondità che oggi non v’ha altra traccia di esso, che fango e laguna”. Nel frattempo in altro luogo, si era creato subito un altro lago. I corsi fluviali sono stati mescolati dal terremoto, le acque uscendo dal proprio letto sono confluite in altri torrenti. “La perdita de’ terreni utili non solo è immensa, ma altresì irreparabile”. Gli alberi erano perlopiù schiantati a terra, rovesciati per metà o coperti da fango.

“Tutto è sparso di enormi voragini”. Ciò che fece orrore all’autore fu il considerevole numero di case rurali diventate rimasugli, “rovinevoli o sconquassate”. Resistevano in molti casi solo porzioni di edifici, alcuni dei quali inclinati dai movimenti tellurici. I maggiori danni registrati vennero dagli studiosi borbonici attribuiti alla conformazione delle terre. Definite “movitine” sarebbero per loro natura “mobili, molli, vagabonde”. E dal loro canto i numerosi torrenti naturali hanno avuto il triste potere di trasformarle in un “liquamento di facile mobilità”.

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