Morto a 21 anni in carcere a Paola, la Procura apre indagini e c’è chi da 8 anni cerca verità

Il ragazzo si sarebbe tolto la vita il 30 giugno, l’esito dell’autopsia non è stato ancora comunicato. Per un altro caso di suicidio invece c’è una famiglia che aspetta da anni di conoscere la dinamica del decesso

PAOLA (CS) – Morto in carcere a 21 anni. Il decesso di Giuseppe Spolzino di Sala Consilina ha indotto la Procura di Paola ad avviare indagini, aprendo un fascicolo a carico di ignoti. Eseguita l’autopsia all’Ospedale di Cetraro, l’esito degli esami svolti dal medico legale Pietrantonio Ricci dell’Università di Catanzaro non è ancora stato comunicato. La salma intanto è stata dissequestrata e restituita ai familiari per le esequie che si sono tenute nelle scorse settimane tra lo sgomento di parenti, amici e conoscenti. Condannato a 3 anni e 6 mesi di reclusione con rito abbreviato dal gup del Tribunale di Lagonegro, era in attesa di presentare ricorso alla Corte d’Appello di Potenza per rivedere la sentenza. Il pm della Procura di Paola Mariolina Bannò sta seguendo con molta attenzione la vicenda.

La morte di Giuseppe nel carcere di Paola

Sono infatti stati sollevati dai familiari alcuni interrogativi attualmente al vaglio dell’autorità giudiziaria. In particolare alcune discrasie in corso di accertamento sarebbero state rilevate nel documento redatto il 1° luglio dalla direttrice del carcere di Paola, Emilia Boccagna e inviato alla locale Procura, al Tribunale di Lagonegro, al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, al Ministero della Giustizia. Tra le presunte incongruenze vi sarebbero alcuni dettagli relativi al ritrovamento del corpo del ragazzo all’interno della cella nella quale si sarebbe suicidato impiccandosi con un lenzuolo. Giuseppe era stato trasferito dalla casa circondariale di Poggioreale agli arresti domiciliari a Scalea in quanto ritenuto incompatibile con il regime carcerario. Violata la misura cautelare è stato poi tradotto nel penitenziario di Paola dove ha perso la vita dopo circa 10 giorni: ufficialmente alle 22:00 di domenica 30 giugno. Il padre lo aveva visto martedì, l’avvocato giovedì. Era in attesa di un nuovo colloquio con la psicologa del carcere e stava seguendo un corso di giustizia riparativa. Nulla lasciava presagire l’imminente tragedia. Anzi.

L’ambiguo suicidio del 2016

La vicenda ha di certo contorni e circostanze diverse, ma inevitabilmente fa riaffiorare il ricordo della morte del 46enne Maurilio Morabito cui dinamiche restano a distanza di 8 anni ancora da accertare in via definitiva. L’uomo doveva scontare una condanna per un’evasione dai domiciliari avvenuta 10 anni prima, quando andò dal medico senza avvisare gli organi competenti. Gli mancava poco più di un mese di reclusione, poi sarebbe uscito dalla casa circondariale di Paola ed era pronto per tornare a lavorare. Ma così non è stato. In quel penitenziario il suo cuore ha cessato di battere. Si sarebbe ucciso dando fuoco ad una coperta ignifuga per poi impiccarsi con la stessa dopo averla legata ad una griglia a nido d’ape posizionata a 45 centimetri dal pavimento, nonostante lui fosse alto 1 metro 73 centimetri. È stato trovato in mutande, privo di vita, in una cella dove era stato rinchiuso con solo un secchio per urinare e defecare. Una misura punitiva, usata paradossalmente per tutelarlo. Da tempo denunciava di essersi rifiutato di “fare un favore” e di temere di essere ucciso. Lo disse anche in una lettera: “Se dovesse accadere un mio eventuale decesso, – scrisse – facendo il tentativo di farlo passare per un suicidio, non è così in quanto amo troppo la vita e il mio fine pena è imminente. Ovvio che l’agente che fa la notte sa”.

Morabito attende giustizia

I familiari di Morabito attendono di capire cosa abbia portato Maurilio alla “verosimile morte per suicidio” verbalizzata nell’autopsia. Al termine del processo penale scaturito d’ufficio, si sono ritrovati ad essere condannati a pagare 1.800 euro di spese processuali ciascuno (madre, padre, sorella e fratello). Un altro procedimento civile pendente innanzi al Tribunale di Reggio Calabria per “culpa in vigilando” è ancora in corso di svolgimento tra rinvii e testimonianze contraddittorie di alcuni agenti della penitenziaria puntualmente rilevate dal giudice. “Sono passati anni, ma so che dopo la morte di mio fratello – ricorda la sorella di Morabito – almeno altre due persone hanno perso la vita in quel carcere. Non mi hanno fatto entrare nella cella dove era recluso, che è sostanzialmente un piccolo corridoio di 2 metri per 1 metro. Hanno chiamato alle 8:30 dicendoci che era deceduto all’1:00 di notte. Dai fagioli non digeriti ritrovati nel suo stomaco sembra però sia spirato un quarto d’ora dopo la cena: quindi verso le 18:15. Al collo aveva un segno simile a quello che potrebbe lasciare un cavo del caricatore del cellulare. Aveva subito pesanti minacce. Diceva di avere paura e chiedeva di essere protetto. In uno degli ultimi colloqui aveva chiesto di chiamare i carabinieri perché temeva per la propria incolumità. È vero che chi sbaglia deve pagare, ma non con la vita”.

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