Al More l’esilarante commedia di Punta Corsara: ‘Il cielo in una stanza’
Francesca Ramunno
La compagnia napoletana, erede della tradizione eduardiana, in un racconto ambientato in una palazzina “senza più pareti”
COSENZA – Il primo appuntamento del 2018 al More, il progetto di Scena Verticale in partenariato con il Comune di Cosenza, la Regione Calabria e il MiBACT, lo firma la compagnia napoletana Punta Corsara, erede della tradizione eduardiana, in una esilarante commedia ambientata in una palazzina “senza più pareti”, sul palcoscenico del Teatro Morelli domenica 28 gennaio alle 18.30. Quando accade di incontrare un teatro capace di districarsi nelle vicende della storia italiana degli ultimi decenni, un teatro che si pone domande difficili, che necessitano studio, scavo e che non consegnano risposte certe, né intrattenimenti, né rafforzano il senso di appartenenza a qualsivoglia comunità o banda, ma al contrario lo incrinano; quando l’arte si scrolla di dosso uno sguardo eccessivamente intimo e privato, manchevole di quell’afflato necessario per tentare discorsi su contesti che ci riguardano tutti; quando il percorso di un gruppo nel tempo si costruisce come linguaggio, un teatro di attori-e-attrici-che-scrivono e che rinnovano gli spazi di una tradizione di riferimento; allora in questi casi ci pare di vedere un teatro con un intento politico chiaro.
Così è per Il cielo in una stanza, ultima produzione di Punta Corsara, una scrittura originale di Armando Pirozzi e Emanuele Valenti, anche regista e interprete insieme allo straordinario gruppo di attori e attrici composto da Giuseppina Cervizzi, Christian Giroso, Vincenzo Nemolato, Valeria Pollice, Gianni Vastarella. Siamo nella Napoli del boom, durante la rivoluzione edilizia voluta dal “comandante” Achille Lauro, armatore, presidente calcistico, sindaco al potere in città fra ’50 e ’60. Una coppia emigrata in Svizzera ottiene una pensione di invalidità, torna a Napoli, acquista una di quelle case attraverso cui i ricchi e i politici stavano mettendo le mani sulla città (come racconta il film di Rosi, 1962). Ma questo è un flashback che gli attori incarnano entrando e uscendo da diversi personaggi, rincorrendosi in una scenografia di madie, ante, praticabili, porte, scalette, muri scrostati, specchiere, cassettoni: girare l’angolo in scena, sedersi su una sporgenza, camminare sulla sommità di una credenza corrisponde a salire al piano superiore, a fermarsi sulle scale o sostare su un terrazzo. L’arrivo di un avvocato accende l’andamento drammatico: il giovane dovrebbe difendere gli interessi degli abitanti, divisi sul loro stesso destino, indecisi se accanirsi pretendendo un promesso restauro oppure accettare di andare altrove. Firmeranno le carte, gli inquilini? Si accomoderanno in una mediazione burocratica, mentre la loro casa, qui negli anni ’90 sta crollando, al punto che dalle stanze si vede il cielo? C’è una vecchietta che parla in dialetto stretto e insegue i piccioni con una carabina, c’è l’inquilino del piano interrato, che non esce mai di casa e si esprime come pura voce parlando da uno sciacquone, c’è una madre con suo figlio indeciso sul da farsi, comodo in un’ignava zona grigia.
La comunità non si accorda e per dirimere la controversia sarà necessario sequestrare il giovane avvocato, scoperto da tutti figlio del costruttore del palazzo, litigando animatamente fra una soluzione violenta (la sua uccisione, dunque la via d’uscita “mitica” capace di interrompere il ciclo di ingiustizie, propugnata da un inquilino difensore della libertà degli indiani d’America) e il rispetto di una via giudiziaria, incarnata dal ragionare dell’inquilino Cafiero, personaggio che porta il nome dell’avvocato che scriveva i discorsi di Lauro. Dunque la ragionevolezza, la razionalità, la dialettica al servizio di un ordine da ottenere per via giudiziale, col sospetto che la burocrazia ne dissolverà i principi.