COSENZA – Terra di ‘ndrangheta: un’etichetta scomoda. C’è una larga, larghissima fetta di calabresi, laboriosi, lavoratori e onesti che di portarsi dietro la nomea di essere “malandrini”, ne hanno davvero abbastanza. La Calabria, e lo dico amaramente da cronista, solo se c’è il morto, specie se ammazzato, se viene commesso il delitto, casomai d’onore, o se, com’è successo recentemente, purtroppo, dieci consiglieri regionali, invece di pensare a fare politiche di trasparenza e di rilancio per la propria terra, l’affossano sperperando soldi pubblici in “Gratta e Vinci”, distrazioni con donnine impegnate in sensuali movenze da lap dance e altro. Insomma, ce n’è davvero abbastanza per dire basta. E allora servirebbe un rigurgito d’orgoglio, un sussulto di calabresità per eliminare il cancro alla radice. L’ha detto, ripetuto e confermato anche il collega Antonio Nicaso che della lotta alla ‘ndrangheta, lui, al pari di tanti altri bravi e affermati colleghi, ne ha fatto un cavallo di battaglia. Anzi, meglio dire una missione. Le lezioni di antimafia di Antonio Nicaso sono accompagnate da un silenzio assorto e partecipato. Lui arriva e comincia a parlare agli studenti come se li conoscesse da sempre, raccontando con naturalezza di come la ‘ndrangheta sia tra le mafie quella che meglio di tutte ha saputo piegarsi alla modernità della globalizzazione, senza però smarrire le radici, senza snaturarsi e dunque diventando un mostro flessibile, potente, difficile da battere. Nicaso è ospite dell’Unical fino alla fine del mese di aprile per tenere un ciclo di lezioni su come il fenomeno criminale è mutato e il numero di studenti che segue il corso è un segno importante di un seme di impegno civile che l’università e l’associazione Libera tentano di gettare. Per l’occasione accanto a lui durante la lezione c’erano Giap Parini, sociologo che è tra gli organizzatori della visita del giornalista e scrittore e il prefetto di Cosenza, Raffaele Cannizzaro. Lo studioso italiano che da tempo ormai insegna in Canada e negli Stati Uniti, autore di numerose pubblicazioni sulla ‘ndrangheta, ha spiegato come il potere criminale si sia impadronito dei paradigmi della globalizzazione, al punto che il concetto di mafia debba necessariamente essere declinato al plurale. Una pluralità che riguarda i molti e diversi modi attraverso i quali la ‘ndrangheta si manifesta, sempre controllando il territorio, sia pure in maniera del tutto diversa. Differente è infatti la forma di potere che la criminalità esprime in Calabria rispetto a quella con cui si presenta, per esempio, in Canada. Una metamorfosi che è il segno di una capacità impressionante di adeguarsi alle specificità sociali, culturali ed economiche dei paesi nei quali intende operare. Così succede che solo un osservatore distratto, magari ancora persuaso che la ‘ndrangheta sia solo quella del pizzo, può stupirsi di trovare importanti propaggini del suo potere in Congo, dove intrattiene convenienti affari con i miliziani di quel paese cui fornisce armi in cambio del prezioso Coltan, minerale rarissimo necessario per le tecnologie avanzate della comunicazione. Antonio Nicaso, senza troppi giri di parole, annuncia che la battaglia contro il potere criminale rischia davvero di andare perduta, “perché – sostiene – se la ‘ndrangheta è stata capace di parlare una sola lingua franca, globalizzandosi appieno, l’azione di contrasto dei vari governi invece è rimasta indietro, inefficace, perché priva di un comune coordinamento legislativo”. Se esiste un filo che espone la fragilità delle istituzioni al prepotente dilagare del fenomeno ‘ndranghetistico, la causa va cercata anche in una certa diffusa cultura dell’illegalità, e noi viviamo in un Paese, e specificatamente in una Regione dove “oltre il sessanta per cento delle delibere delle amministrazioni pubbliche risulterebbe illegittimo”. Allora, risvegliamoci, sospinti da un rigurgito d’orgoglio di sana e onesta calabresità.
Editoriale: Nicaso spiega come sconfiggere la ‘ndrangheta
