Calabria
Caso Villella, spunta l’erede del cranio conteso
Spunta il “terzo incomodo” nel processo tra il Comune di Motta Santa Lucia e l’Università di Torino
COSENZA – Con tutta probabilità, un’associazione antimafia non attenderebbe con altrettanta trepidazione una sentenza penale a carico di un boss. Chissà che avrebbe pensato il povero Giuseppe Villella se qualche veggente gli avesse detto che, da morto, sarebbe diventato una celebrità. Anzi, un’icona.

Pino Aprile
Eppure è così: molti, tra i gruppi “sudisti”, nati anche in seguito al successo spropositato dei libri di Pino Aprile (a partire da Terroni), aspettano con ansia la sentenza, attesa per il prossimo 4 ottobre, con cui la Corte d’Appello di Catanzaro, presieduta per l’occasione da Bruno Arcuri, deciderà della contesa tra l’Università di Torino e il Comune di Motta Santa Lucia, supportato dal Comitato Tecnico-Scientifico “No Lombroso”, sul cranio di Villella, deceduto in carcere a Pavia nel 1864 e considerato erroneamente un brigante fino a tempi recenti.

Referti esposti nel Museo Lombroso
La storia è piuttosto nota: il criminologo Cesare Lombroso esaminò il cranio di Villella nel 1870 e credette di trovarvi la prova dell’atavismo criminale: la famigerata “fossetta occipitale mediana”. Con il riallestimento del Museo “Cesare Lombroso”, avvenuto nel 2009, il cranio di Villella ha ottenuto una nuova e insperata notorietà.

Cesare Lombroso
Scambiato per il resto umano di un brigante a causa di un errore di Lombroso che lo definì tale, il cranio di Villella è diventato oggetto prima di una polemica senza quartiere e poi della lite giudiziaria che si sarebbe dovuta concludere il 20 settembre: secondo i “sudisti”, che hanno creato il Comitato “No Lombroso”, presieduto da Domenico Iannantuuoni, Villella era il simbolo del Meridione oppresso e del razzismo antimeridionale, di cui Lombroso sarebbe stato tra gli iniziatori. Razzista e antimeridionale Lombroso, razzista e antimeridionale, quindi, il museo in cui è custodito il cranio del presunto brigante.

Domenico Iannantuoni
La vicenda sarebbe rimasta nell’ambito delle polemiche culturali a sfondo folcloristico se il Comune di Motta Santa Lucia, dov’era nato e vissuto Villella, non avesse intentato la causa all’Università di Torino per ottenere la restituzione del teschio di Villella.
Il processo, svoltosi in prima battuta presso il Tribunale di Lamezia Terme, è sfociato in un’ordinanza con cui il 3 ottobre 2012 il giudice Gustavo Danise ha richiesto la restituzione del cranio al Comune di Motta. Il cranio, tuttavia, è rimasto a Torino perché l’Università ha fatto appello.

Il Tribunale di Lamezia Terme
La sentenza era attesa per il 20 settembre. Tuttavia, in seguito a un colpo di scena, i giudici di Catanzaro hanno differito la data al 4 ottobre. Già: nel frattempo, come in parte è stato già anticipato sul web e dalla Stampa di Torino, è spuntato fuori un discendente di Villella, che ha chiesto di intervenire nel processo.
Ed è questa l’unica notizia certa: il resto sono illazioni o retroscena che, sebbene autorevolmente divulgati, non risultano confermati.
L’ingresso del discendente, che a questo punto acquista la condizione di erede, rimescola le carte in tavola. E il perché lo si capisce anche dalla parte dell’ordinanza di Danise in cui il giudice lametino ha riconosciuto il diritto del Comune di Motta a costituirsi in giudizio. Infatti, finché il discendente non c’era (o non si era fatto avanti), restava solo il Comune a rivendicare le spoglie di Villella.

Amedeo Colacino
E questo non sulla base di un diritto privatistico (quello alla sepoltura è un diritto personalissimo che, al più, spetta agli eredi se manca la volontà del defunto). Ma, come aveva stabilito Danise, per una specie di diritto “pubblicistico” del Comune alla tutela del proprio decoro e della propria immagine.
Infatti, aveva decretato il giudice: “La domanda formulata dal Comune di Motta S. Lucia non tende a soddisfare un interesse privato alla sepoltura di un individuo; ma mira a realizzare l’interesse collettivo di restituire lustro e prestigio alla comunità territoriale, ritenuta ingiustamente terra natia di briganti e criminali; la sepoltura di Villella non equivarrebbe a quella di un quisque de populo (uomo qualunque, nda), ma a quella di un personaggio divenuto – suo malgrado – famoso per aver costituito il fondamento di una teoria scientifica poi risultata fallace”.

Interno del Museo Lombroso
Con l’ingresso dell’erede nel processo, di questa parte dell’ordinanza del 2012 non resta praticamente nulla: torna in campo il diritto “personalissimo”, perché ora c’è chi può farlo valere. Al riguardo, val la pena di ricordare un episodio curioso: su Amedeo Colacino, sindaco di Motta Santa Lucia e socio fondatore del Comitato “No Lombroso”, girò la voce curiosa, lanciata da alcuni siti web calabresi e presa per buona da Repubblica, che fosse discendente di Villella. Di questa voce, finora, parrebbe, non smentita in via ufficiale dal diretto interessato, non c’è traccia nell’ordinanza di Danise, segno che forse gli avvocati del Comune catanzarese non hanno ritenuto utile utilizzarla nel processo.
Ma della parte di ordinanza citata poco sopra è stato smentito, in maniera piuttosto consistente anche l’assunto “politico”, a cui Danise nel 2012 aveva dato veste giuridica: Giuseppe Villella non era un brigante, a suo carico non ci sono stati processi per brigantaggio, intentati magari dai militari che occupavano il territorio sulla base della legge Pica o di vari bandi militari. Nel frattempo, una studiosa dell’Università di Padova di origine calabrese, Maria Teresa Milicia, aveva fatto una ricerca in vari archivi e aveva scoperto che Villella, effettivamente morto in carcere nel 1864, era un pastore denunciato per furti. Ironia della sorta: il mottese, se le cose stanno così, sarebbe stato denunciato da altri calabresi sulla base del Codice penale del Regno delle Due Sicilie (vigente fino all’approvazione del Codice Zanardelli, avvenuta circa vent’anni dopo).
In ogni caso, quel cranio tanto conteso non apparteneva a un brigante. E ciò vale finché, sulla stessa base scientifica e dello stesso tipo di ricerche, non siano smentiti i risultati della Milicia, pubblicati in Lombroso e il brigante, un libro del 2014. Ciononostante, i media locali, anche testate prestigiose, hanno continuato a ripetere la favola del brigante.
Comunque vada a finire la vicenda, val la pena di ricordare che l’aspetto più “politico”, sulla base del quale il Comitato “No Lombroso” è partito all’attacco sulla propria pagina Facebook, di fatto non esiste più, specie se si considera che il Museo torinese ospita referti umani di tutta la Penisola e non solo. Se fu razzista, Lombroso lo fu contro una presunta “razza delinquente” sparsa dappertutto e non concentrata al Sud e la cui esistenza nessuno, a partire dallo stesso scienziato veronese, è riuscito a provare.
La sentenza del 4 ottobre, salvi altri rinvii, stabilirà solo chi ha diritto a conservare (o seppellire) il cranio di Giuseppe Villella e nient’altro. E non proverà il presunto razzismo dell’Università di Torino. Si spera solo che serva anche a dare al pastore mottese la pace che merita.



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